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A rischio della propria vita

Uno dei più apprezzati giornalisti militari – il colonnello George Vasile – ha descritto in maniera suggestiva i sette giorni più difficili per il generale Gusa. Egli menzionava, fra l’altro, quanto segue:

“Dei 54 anni che il generale Stefan Gusa ha riunito con fatica in un destino fuori dal comune, alcuni giorni (sette) lo hanno proiettato nella storia della Romania. Tra il 17 e il 23 dicembre 1989, egli fu messo nella situazione di dover prendere decisioni di una importanza senza precedenti per il Paese, per l’esercito e per la sua propria vita. Ha amato immensamente il suo Paese e l’esercito. Per essi ha rischiato la vita in ciascuno dei sette giorni, come alla roulette russa. Il 17 dicembre arrivò a Timisoara, mentre  in città stavano sparando.

Chi e perché abbia scatenato gli eventi costituisce (tuttora) un enigma che la storia dovrà risolvere. Egli, però, arrivò tuttavia in tempo per fermare ciò che era stato progettato per trasformarsi in un massacro.
Tra la furia di un regime agonizzante e quella della folla uscita in strada, il suo pensiero separò l’eternità del Paese dagli interessi del suo autocrate temporaneo.

– Evitai un disastro – mi disse – recuperando i carri armati di cui si erano impossessati i rivoltosi di Timisoara, ma non eseguii gli ordini di repressione e neanche quelli di arrestare coloro che si trovavano nell’edificio dell’Opera. Il 20 dicembre andai alla fabbrica “Elba”. Dio e il suo spirito da contadino vinserò. Fece ritirare l’esercito nelle caserme. Il 20 di dicembre Timisoara era una città libera. Il 21, di sera, come affermava il generale stesso “alcuni si affrettarono a prendere l’aereo verso Bucarest. Ebbi per un attimo l’impressione che volessero rendermi responsabile di ciò che avevano fatto gli altri. Mi telefonò, però, Milea e mi disse: “Stefan, resta là e soprattutto prenditi cura di te!”. Vi rimasi. Soltanto il giorno successivo, dopo aver appreso la notizia della sua morte, mi ritenni libero da obblighi e partii per Bucarest…”.Venne poi la “famosa notte dei generali”. Si poneva il problema di un aiuto militare per  eliminare i misteriosi terroristi. Il generale ricorda:

“- Mi era stato detto che la gente veniva uccisa. Ma pensai a quanti erano già morti in passato quando nel Paese vi erano state truppe straniere e rifiutai qualsiasi intervento straniero. Commisi forse uno sbaglio. Fui forse troppo categorico…” Proprio per questo ci si può domandare se si possa accusare una persona quando l’intera storia della sua stirpe preme sulle sue spalle?
Ebbi alcuni colloqui con il generale Stefan Gusa. L’ultimo proprio prima della sua partenza per Vienna. Era gravemente malato, ma mi pregò di non scrivere nulla al riguardo. Ora mi sento libero da quella promessa. Alcuni giornalisti di quelli che rovistano nella spazzatura  non esitarono a entrare nella sua camera d’ospedale saltando dalla finestra per ricavare poi denaro raccontando l’orrore della sua sofferenza. Gli ultimi tre mesi di vita se ne stette disteso sul dorso, completamente immobile. La sua mente e la sua volontà si mantennero, però, lucide e forti. Stringeva i pugni e diceva: “- Dio mi ha aiutato. Sento di non avere più forze. Forse me ne darà Lui, però, e ce la farò anche questa volta”. Quando gli chiesi quale pensava fosse la causa della sua malattia, mi rispose: “- Forse, ma non ne sono sicuro, quel caffè (n.a.: il caffè offertogli nella “notte dei generali”). Dopo averlo bevuto stetti sempre peggio. Il 30 dicembre 1989, di sera, incontrai i miei a Predeal e stentarono a riconoscermi. Uscii l’anno scorso dall’ospedale. Mentii dicendo di stare bene e me ne andai a fare esercitazioni sul terreno. Mi sentii, però, sempre peggio. Mi ricoverai per una settimana in una clinica di Parigi e mi sottoposi a indagini cliniche. Mi pervennero i risultati delle analisi fatte a Vienna.  Mio Dio, cosa avevo fatto per meritarmi questo? Non ho nulla da rimproverare a nessuno, né a Spiroiu, né ai medici.Gli altri li ho perdonati tutti.”
Al nostro ultimo incontro i suoi polmoni bruciavano. Aveva 40 gradi di temperatura, ma lesse ciò che avevo scritto e poi disse: “- Ovunque tu vada, dì a tutti di amare più di ogni altra cosa l’Esercito Romeno, che io non sto bene, e che li amo.”

La vita del generale Gusa si giocò più volte alla roulette russa. Ceausescu, se fosse stato ancora vivo, avrebbe potuto condannarlo a morte. Il nuovo regime, avrebbe potuto mandarlo in prigione. Quelli che a dicembre 1989 videro deluse le proprie aspettative scatenarono contro di lul una virulenta campagna di stampa. I giornali scandalistici si nutrirono delle sue sofferenze. Gli stranieri lo apprezzarono. I rivoluzionari lo capirono. L’esercito lo adulò. Che ci piaccia o no, il generale Gusa Stefan è entrato nella storia. Molti pensano che abbia portato con sé nella tomba la soluzione degli enigmi di dicembre 1989. Io, al contrario, ritengo che sia stato un uomo come noi, che trasformò il suo passaggio sulla terra in una lezione di dignità”- conclude il giornalista soprammenzionato.

“Il carro armato ha un’anima. Si lega a quelli che lo utilizzano, lo guidano, e lo manovrano in battaglia. In un certo senso, ogni squadra si lega corpo e anima alla macchina da guerra. La sua anima si trasmette anche al tank. Succede, forse, anche l’inverso, cioè che il carro armato animi coloro che lo guidano. In ogni caso, chi ama la sua arma ha il diritto di dire che la sua arma ha un cuore. Prevale, però, l’anima del soldato, il quale è stato, e e deve essere rispettato. In ultima istanza, il cuore dell’esercito è lui. L’anima del soldato è quindi molto importante, come lo è anche comunicare con essa, farsi capire dal soldato! I comandanti che hanno vinto battaglie importanti hanno saputo toccare l’anima dei loro subordinati. Riuscirci è una grande arte, tenuto soprattutto conto che l’esercito non può essere concepito senza esigenze e senza disciplina.”

Generale Stefan Gusa

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